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Super Bowl, la sfida per il titolo tra i Los Angeles Rams e i Cincinnati Bengals

A volte per riaccendere antiche memorie basta una scintilla: un profumo, una fotografia, una visione o un nome. Nel mio caso il nome di una delle due protagoniste del Super Bowl 2022: i Cincinnati Bengals, che affronteranno i Los Angeles Rams. I Bengals non arrivavano alla finalissima del campionato di football dal 1989, ecco proprio la mia prima volta. E’ stato un attimo riaccendere quel ricordo, con il pizzico di nostalgia che ti strozza leggermente la gola quando devi riavvolgere un nastro di 33 anni.Los Angeles, il Sofi Stadium

© Fornito da Rai News Los Angeles, il Sofi Stadium

Allora il SB fu Bengals, con i loro bellissimi caschi tigrati in nero e arancione, contro San Francisco 49ers pilotati da Joe Montana, il miglior quarterback di sempre prima dell’era Tom Brady. Si giocava a Miami e di quei giorni ho in testa due cose: la rimonta storica di Montana sul filo di lana di una partita memorabile, appunto; e la Miami di quei tempi, lontana anni luce dal parco divertimenti di oggi. Su Ocean Drive si affacciavano hotel sfasciati e decadenti e la città al suo interno era off-limits per i turisti che osavano avventurarsi.

Ecco, per spiegare il Super Bowl ho voluto iniziare da quel giorno. Quando la finalissima del football, lo sport in assoluto più popolare degli States (lo ama quasi il 40% di americani, rispetto all’11% del basket e al 9% del baseball), era ancora solo un grande evento sportivo. Per trasformarsi in evento iconico ci sarebbe voluto qualche anno. Quella trasformazione, però, era già cominciata nel 1979, quando la Nfl aveva chiamato a occuparsi del Super Bowl Jim Steeg. Fu lui a capire che andava cambiato il formato: da one day happening, se pur Super, ad avvenimento che durasse almeno quattro giorni. Feste, sfilate di vecchi campioni, celebrities, sessioni di autografi, mercati per collezionisti di gadget e foto. Si doveva coinvolgere anche chi non aveva il biglietto per lo stadio. E ormai da anni, grazie a Steeg, centinaia di migliaia di persone viaggiano fino alla città del Super Bowl per annusare l’atmosfera e guardare da lì la partita in tv.

Per comprendere la grande rivoluzione, basta raccontare che a quel mio primo SB del 1989 (per la Gazzetta dello Sport sarò poi presente ad altri 16), a intrattenere gli spettatori nel “Half Time Show”, i dodici minuti di concerto che sarebbero diventati i più seguiti del mondo, c’era Elvis Presto. Elvis who? Presto, un patetico prestigiatore-cantante che imitava l’Elvis più celebre e immortale. Raccomandazione: vedere il filmato dell’epoca su YouTube per farsi due risate. Dalla prima edizione del 1967 (e sarà così fino al 1990) nella pausa di metà match sul palco al centro del campo e del mondo al massimo erano sfilate bande musicali di college più o meno famose. Fu il visionario e lungimirante Steeg a capire la potenzialità economica di quell’intervallo e tirare un colpo di spugna sull’enorme spreco. Così nel 1993 invitò Michael Jackson, in quegli anni la pop star più celebrata del Pianeta. Racconta sarcastico: “Jackson non sapeva neppure cosa fosse il Super Bowl: non lo aveva mai visto. Quando gli spiegai che quel breve concerto sarebbe andato in onda in 100 paesi, anche dove non lo avevano mai fatto cantare, disse subito di sì. Dopo quella performance, chi in precedenza aveva rifiutato, come Bruce Springsteen e i Rolling Stones, cambiò idea”. Steeg tiene a sottolineare che i cantanti non vengono pagati: “Al Super Bowl si viene gratis”. I Rolling Stones, poi, si esibirono nel 2006, il Boss nel 2009. Ma prima di loro avevano cantato gli U2 e Paul McCartney, e l’elenco si è arricchito con gli anni di nomi pazzeschi: Beyoncé, Lady Gaga, Katy Perry, Justin Timberlake e Madonna (oggi, in un festival rap toccherà a Dr Dre, Snoop Dogg, Eminem, Kendrick Lamar e Mary J. Blige). Proprio Madonna, alla conferenza stampa di vigilia della sua esibizione del 2012, confessò: “Sono nervosissima! In quei pochi minuti dovrò inventarmi il mio più grande spettacolo di sempre, nel mezzo del più grande spettacolo della terra. Sì, ho addosso una forte pressione”. Avrebbe affrontato il giorno dopo in live un’audience di oltre 100 milioni di persone e non le era mai capitato prima.

Già perché il SB è ogni anno da decenni l’evento più visto alla tv Usa (con dei picchi da 114 milioni di spettatori) con la sola eccezione dell’ultimo episodio di Mash che lo batté nel 1983. Per questo girano intorno alla super partita milioni di dollari. I grandi network pagano per i diritti del football oltre 10 miliardi di dollari a stagione, per un fatturato (pre-Covid) della Nfl di oltre 11 miliardi. Cifre che fanno impallidire le altre Leghe Usa e il nostro calcio europeo. Uno spot di 30” (tutti esauriti), durante le oltre tre ore di diretta, costerà quest’anno 6.5 milioni di dollari (+ 1 milione rispetto all’anno passato), perché anche il rinomato Carosello può contare su quella immensa platea di telespettatori.

E’ chiaro che il Super Bowl non è solo una semplice finale del football, c’è molto molto di più. Mi spiegava Jim Litke, editorialista della Associated Press, che ha coperto 22 Super Sunday: “Nell’era prima del SB, gli Stati Uniti avevano la 500 Miglia di Indianapolis. Si disputava (anche oggi, ndr) nel weekend della festa nazionale del Memorial Day a fine maggio: le famiglie si riunivano, arrostivano gli hamburger e guardavano la grande corsa. Ora c’è il Super Bowl, appunto, e il Paese si ferma proprio come capita al resto del pianeta per la finale della coppa del mondo di calcio”. Insomma, c’è la voglia di esserci, di discuterne nei pub, di sentirsi parte di questa Nazione: un collante sociale che riappiccica i cocci delle fratture politiche. E allora è impossibile non citare la frase a effetto che alla fine degli anni Settanta pronunciò il pastore protestante Vincent Peale, autore del bestseller The Power of Positive: “Se Gesù fosse tra noi, andrebbe a vedere il Super Bowl”. Non è un’eresia. Forse il modo migliore per far comprendere la grandezza dell’avvenimento. Ma perché è diventato così iconico, si chiese qualche anno fa il New York Times? Non lasciò in ansia i suoi lettori a cui fornì una risposta precisa: “Nel modo in cui gli Usa misurano ogni cosa: con il dollaro”. Basta pensare che nel 2017 sono stati spesi in cibo e gadget per la Super Domenica circa 15 miliardi.

Sul tema si espresse il politologo George Will, oggi 80enne, definito a quei tempi dal Wall Street Journal il giornalista più potente degli Stati Uniti: “Il football combina i due lati peggiori di noi americani: violenza e affarismo”. Mentre l’allora popolare psicologo dello sport, Thomas Tutko, confermò: “Il football rappresenta i nostri valori: lavoro duro, senso del dovere e brutalità”. Per restare sul mistico, il sociologo Harry Edwards che apparteneva al movimento afro-americano Black Panther, lo definì così: “E’ l’ultimo atto religioso di una stagione”. Oggi il Grande Tempio sarà il SoFi Stadium di Los Angeles, un modernissimo santuario costato 5 miliardi di dollari: e all’interno i Rams (un trofeo conquistato 23 anni fa) e i Bengals (zero tituli, ultima apparizione nel 1989) a darsele di santa ragione. Con cento milioni di fedeli schierati davanti alla tv: in adorazione del sacro evento.

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