L’epoca dello spettacolo Social del dolore. Ma è vera condivisione?

Gloria Gualandi
Viviamo in un’epoca in cui ogni emozione sembra dover essere condivisa, documentata, impacchettata e pubblicata. Non solo i viaggi, i look del giorno o le colazioni. Anche la tristezza. Anzi, soprattutto quella.
Piangere davanti alla fotocamera è diventato normale. Raccontare in diretta la fine di un amore, la perdita di una persona cara, la crisi personale, è quasi un dovere per chi ha un minimo di visibilità online. Non è raro vedere persone che si riprendono mentre scoppiano in lacrime, che dicono “non ce la faccio più”, con i filtri attivi e i commenti aperti. Ma quando il dolore diventa “contenuto”, cosa resta dell’intimità?
Il dolore pubblico… e i like
C’è qualcosa di profondamente umano nel bisogno di essere ascoltati, visti, compresi. Ma la spettacolarizzazione del dolore, spesso, trasforma quel bisogno in performance. Un post strappa-lacrime, un video commovente, un audio tremolante su TikTok.
Tutto viene elaborato per essere consumato, commentato, condiviso. A volte è terapeutico, certo. Ma altre volte è solo una risposta disperata alla paura di sparire, di non essere notati, di non valere se non si “appare”.
E allora anche la tristezza diventa una vetrina. Ma curare un dolore sotto i riflettori, è davvero guarire? Dove è il confine? Una volta il dolore si viveva in silenzio, con poche persone vicine. Oggi, se non lo racconti, sembra che non stia succedendo davvero. Ma c’è un confine sottile – e importante – tra condivisione e esposizione. Tra raccontare per elaborare… e raccontare per ricevere attenzione.
Non è questione di moralismo. È una riflessione sulla profondità: se tutto viene subito condiviso, esiste ancora uno spazio in cui vivere le emozioni senza il filtro del pubblico? Il valore della privacy emotiva
Avere uno spazio solo nostro, dove le emozioni possono fluire libere da giudizi, è fondamentale per stare bene. Non tutto deve essere detto subito. Non tutto deve essere mostrato. Certe emozioni hanno bisogno di silenzio, di tempo, di respiro. La verità è che non dobbiamo niente a nessuno. Non dobbiamo spiegare sempre tutto. Non dobbiamo dimostrare nulla. Possiamo anche piangere nel buio della nostra camera, senza filtri, senza flash, senza like. momenti per noi dove possiamo urlare tirare fuori anche se serve rabbia. In conclusione condividere è umano, ma non è obbligatorio. Siamo più di quello che pubblichiamo.
E non è solo ciò che mostriamo a definirci ma anche ciò che scegliamo di tenere solo per noi. Forse la vera rivoluzione, oggi, è questa: proteggere la nostra privacy emotiva come un tesoro. Perché non tutto deve diventare contenuto. Alcune cose devono restare solo vissute. facciamolo solo con chi ci ama veramente chi lo dimostra con azioni e non con le parole.