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Sanzioni e rassicurazioni fra Usa e Russia, il test della Corea del Nord e altre notizie interessanti

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali.

La rassegna geopolitica del 31 gennaio.

SANZIONI E RASSICURAZIONI 

Nel corso del fine settimana, Usa e Russia si sono scambiati altra retorica apparentemente velenosa, ma contenente pure rassicurazioni.

Dopo una prima occhiata alle proposte negoziali inviate dagli americani, il presidente della Russia Vladimir Putin le ha definite non rispettose delle sue richieste. Il suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha ribadito per l’ennesima volta che Mosca non vuole una guerra ma non permetterà che i suoi interessi siano calpestati. Secondo il Pentagono, la Russia ha ulteriormente aumentato le truppe attorno all’Ucraina (ora sarebbero 120 mila).

Intanto, dall’amministrazione Biden filtrano i primi dettagli sulle sanzioni allo studio contro Mosca in caso di attacco. La lista dei bersagli comprende: banche come Vtb, Sberbank e Gazprombank; aziende statali come Sogaz (assicurazioni) o Sovcomflot (spedizioni di energia); il commercio di nuovi titoli di debito pubblico; l’import di microelettronica avanzata.

Perché conta: Putin in realtà è soddisfatto del primo round perché ha ottenuto il negoziato diretto con gli americani, la creazione di alcune crepe fra Washington e gli europei e qualche possibile terreno di compromesso. Proprio per questo continua la retorica minacciosa: ha visto che il gioco funziona, ma la trattativa è ancora troppo in fasce per abbassare i toni. È un modo per dire: ho letto, continuiamo a parlarci.

Le possibili sanzioni invece confermano che gli americani non intendono andare allo scontro diretto. Tengono a chiarire che per ora non intendono attivare le opzioni “nucleari”, cioè escludere la Russia dal circuito del dollaro (mediante l’espulsione dal sistema Swift) e bloccare il commercio di gas e petrolio. Di sanzionare Putin in prima persona non se ne parla più nella stampa d’élite, il focus si è spostato sugli oligarchi nella cerchia del presidente. A questa manovra specifica si è accodato il Regno Unito, per la nutrita presenza di magnati russi nella sua capitale, ironicamente ribattezzata Londongrad.

Gli americani non sembrano voler sostituire la guerra guerreggiata con la guerra economica. Sembrano piuttosto affidarsi al loro classico manuale: usare le sanzioni nella speranza di mettere il popolo contro il regime. Ora l’idea è impedire alla Russia di raccogliere oltre 100 miliardi di dollari dai mercati, per svalutare il rublo e innescare un’inflazione che colpisca beni di consumo e pensioni. L’obiettivo è sollevare un’insurrezione contro Putin. Finora non è riuscito a Cuba, in Iran, in Corea del Nord e non si vede come possa funzionare in un paese molto disciplinato quando attaccato dall’esterno come la Russia. Difficile che gli americani non lo sappiano; se continuano a ripeterlo ai media forse è per mostrare all’opinione pubblica interna e ucraina di avere un piano.

In generale, il fine settimana ha restituito segnali moderatamente positivi. Né la Russia né gli Stati Uniti hanno ancora le mani così legate da rendere una guerra imminente.

Per approfondireQuanto è probabile una guerra in Ucraina? (video)


KIEV CONTRO WASHINGTON E ALTRE FRATTURE [di Federico Petroni]

Una delle notizie più importanti degli ultimi giorni è la netta divergenza di vedute fra Stati Uniti e Ucraina sull’imminenza di un attacco russo. I primi, è noto, lo ritengono altamente probabile. La seconda è invece inusualmente attiva nel dire che non la pensa così e nell’invitare tutti, in particolare nel fronte occidentale, a darsi una calmata.

Perché conta: Kiev è doppiamente scontenta di Washington. Quest’ultima prima ha detto che non interverrà militarmente al suo fianco in caso di invasione russa e poi ha cominciato a seminare allarmismo. Gli ucraini si rendono perfettamente conto che gli americani hanno la necessità di correggere un’iniziale percezione di disimpegno. Solo che ora dicono: non fatelo sulla nostra pelle. Soprattutto non dando segnali che peggiorano il clima, come il rimpatrio del personale delle ambasciate anglofone (anche il Canada oltre a Usa e Regno Unito l’ha iniziato). Ciò ricorda che Kiev ha una propria agenda, in parte sganciata da quella di Washington e che quest’ultima usa la crisi anche per sganciarsi da un attore scomodo, assai complicato da proteggere.

Quella con l’Ucraina non è l’unica faglia attiva in queste ore. La stampa anglosassone critica Emmanuel Macron per il tentativo di tenere aperto un canale autonomo con la Russia, descrivendolo come vago. In realtà è molto chiaro: usare Mosca per guadagnare autonomia dall’America in un nuovo equilibrio di sicurezza europeo che mantenga sedata la Germania, alfa e omega delle ossessioni strategiche transalpine. Vaghi, semmai, sono i mezzi con cui realizzare tanta visione.

A proposito di Germania, i tedeschi dicono che in caso di attacco russo la cancellazione di Nord Stream 2 è sul tavolo, gli americani invece che il gasdotto non andrà avanti. Differenze minime, ma dimostrano come Berlino stia provando a tutti i costi a salvare la faccia. Se la guerra non è probabile, inutile (anzi controproducente) dire che l’infrastruttura verrebbe chiusa in ogni caso.

Altra differenza da segnalare: il rappresentante della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, comunica che il blocco sta studiando sanzioni contro le importazioni necessarie alla Russia a raggiungere i propri obiettivi strategici. Diversamente dagli americani, nessuna menzione dell’impatto popolare delle sanzioni, per non dare l’impressione di prendersela con i cittadini russi.

Intanto anche la Bulgaria si distanzia dalla drammatizzazione in atto: Sofia fa sapere di non essere d’accordo con lo schieramento di truppe Nato sul proprio suolo. Se aumento deve essere, che avvenga con militari bulgari.

Per approfondireIn Ucraina l’Occidente gioca sé stesso


IL MISSILE NORDCOREANO

Il 30 gennaio, la Corea del Nord ha testato un missile di gittata intermedia Hwasong-12. L’agenzia di stampa fedele a P’yongyang ha pubblicato delle immagini satellitari per dimostrare il corretto svolgimento dell’operazione. È il settimo esperimento missilistico condotto dal regime di Kim Jong-un questo mese.

Perché conta: La Corea del Nord esibisce i suoi progressi bellici per persuadere gli Stati Uniti a riavviare i negoziati sul nucleare arenatisi nel 2019. La pena ventilata in caso contrario è l’apertura di un terzo fronte di tensione ora che il doppio contenimento contro Russia e Cina obbliga gli Usa a concentrarsi sui dossier Ucraina e Taiwan.

Il sottinteso è che P’yongyang interromperà i test solo se le sarà riconosciuto lo status di potenza atomica e se saranno rimosse le sanzioni che gravano sulla Corea del Nord. L’amministrazione Biden ne ha applicate di nuove a metà gennaio, alcune anche nei confronti di soggetti e aziende russe che hanno contribuito allo sviluppo militare nordcoreano. Nello stesso periodo, in Cina si è diffusa la voce secondo cui P’yongyang farebbe uso proprio del sistema satellitare della Russia, chiamato Glonass. Non si può escludere che il regime di Kim abbia diffuso le immagini del test scattate dall’etere per alludere all’appoggio di Mosca – o di Pechino. Del resto i satelliti nordcoreani in orbita sono solo due e apparentemente non funzionanti.

Il test serba un messaggio anche per la Cina. Nello specifico, il regime nordcoreano chiede al presidente Xi Jinping di spingere gli Usa a riprendere i negoziati sul nucleare, facendo leva su due fattori. Primo, la Repubblica Popolare non gradisce l’aumento dell’instabilità alle porte di casa. Secondo, ritiene di poter usare la sua influenza su P’yongyang per ottenere concessioni da Washington su altri fronti, vedi competizione economica e Taiwan. La vicenda conviene a Pechino a patto che l’intraprendenza di Kim non degeneri e inneschi realmente una crisi con gli Stati Uniti sulla frontiera nordorientale della Cina.

Per approfondirePerché la Corea del Nord effettua tutti questi test


ISRAELE E PEGASUS 

Un’inchiesta del New York Times riferisce che la vendita da parte di Israele del sistema di spyware Pegasus, software in grado di raccogliere informazioni contenute negli smartphone prodotto dall’Nso Group, è stata una componente chiave della strategia di sicurezza nazionale dello Stato ebraico.

L’indagine riporta anche che l’Fbi ha acquistato e testato il software per anni per monitorare la popolazione statunitense. Lo scorso novembre il dipartimento del Commercio degli Usa aveva inserito l’Nso in una lista nera considerando il suo operato, nelle parole dell’amministrazione Biden, “in contrasto con la politica estera, gli interessi e la sicurezza nazionale americana”.

Perché conta: Uno dei temi principali emersi dall’inchiesta riguarda l’uso da parte di Gerusalemme di Pegasus per implementare la propria influenza in varie parti del globo. Per acquisire il favore dei paesi clienti.

Secondo il Times, il sistema sarebbe stato utilizzato dalle autorità messicane per la cattura del narcotrafficante Joaquín Guzmán Loera, noto come El Chapo; o dall’Arabia Saudita nel caso Jamal Khashoggi; così come dagli Emirati Arabi Uniti per hackerare il telefono dell’attivista antigovernativo Ahmed Mansoor. Anche Polonia, Ungheria, India sono indicati dal Times fra i clienti, così come gli stessi Stati Uniti: secondo l’inchiesta, nel 2018 la Cia acquistò Pegasus per sostenere la lotta al terrorismo di Gibuti, alleato chiave degli Usa per il controllo del fatidico collo di bottiglia di Bāb-el Mandeb.

Soprattutto, la vendita di Pegasus avrebbe svolto un ruolo invisibile ma decisivo nell’assicurare il sostegno delle nazioni arabe nella campagna anti-iraniana di Israele e nei negoziati per gli Accordi di Abramo del 2020, operazione patrocinata da Washington.

La vicenda dimostra dunque, qualora dovessero essere avvalorate le tesi dell’inchiesta, quanto la vendita di armi tecnologicamente avanzate sia uno strumento di proiezione geopolitica. Stesso modus operandi adoperato dalla Turchia con la vendita dei famigerati droni Bayraktar, arma strategica non solo per il suo impiego bellico ma perché utilizzata da Ankara per accrescere la propria influenza.

Infine, l’inchiesta di uno dei giornali statunitensi d’élite contribuisce a dare la misura dei rapporti Usa-Israele. Gli americani hanno bisogno di appaltare all’alleato levantino la sicurezza dello spazio mesopotamico, ma al contempo anche di raffreddarne l’aggressività, messa oggi a dura prova dalla riabilitazione in corso dell’Iran. La scelta di indagare su un software così controverso può essere letta come un messaggio in tal senso.

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