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Netflix, Disney, Amazon e le altre, i nuovi padroni della fantasia: «Schiavi dell’algoritmo e del politically correct»

Lo sbarco anche in Italia dei colossi digitali ha portato a un boom di produzioni. Tra grandi aspettative e vecchie diffidenze è stato uno shock per cinema e piccolo schermo. Ma non mancano le voci critiche​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​ (che temono però di essere citate per nome)


Per capire che nei rapporti fra il cinema italiano e i colossi dello streaming c’è un problema di fondo basta fare qualche domanda in giro. Tutti hanno voglia di parlare dei nuovi padroni dell’etere, ma quasi nessuno vuole essere citato. «Ti prego lasciami fuori, con me sono stati principeschi, come faccio a criticarli?», si schermisce un prestigioso regista arruolato dalle piattaforme. «Dovevano svecchiare il nostro modo di fare cinema e tv, invece anche loro soffrono di burocrazia, lentezza e cattivo gusto», attacca uno storico sceneggiatore e regista con due progetti in cantiere. «Sono schiavi dell’algoritmo e del politicamente corretto, possono chiederti di mettere una rapina in un film ambientato nel III secolo dopo Cristo o di inserire un africano in una serie sulla mafia», insiste un autore satirico sotto contratto con una grande piattaforma. «Noi però non ci siamo mai visti eh, ho firmato un accordo di riservatezza».

E allora? Allora forse questa matassa di fatti e leggende rivela soprattutto l’eterna ansia italica di fronte agli americani. Aggravata da uno sconvolgimento planetario che in pochi anni ha travolto Hollywood e trasformato forse per sempre il consumo di audiovisivi. Fino ad alimentare, quando Netflix, Disney e Prime Video hanno iniziato a lavorare in Italia, aspettative sovreccitate e diffidenze ancestrali.

Del resto, basta dividere gli apocalittici dagli integrati per scoprire che i detrattori delle piattaforme sono in genere maschi, maturi e collettivisti, mentre giovani, donne e registi non ancora consacrati sono più morbidi e aperti alla trattativa individuale. Anche se il dubbio di fondo resta: questi nuovi soggetti dai mezzi illimitati, che grazie alle loro sedi italiane incassano anche i generosi sostegni pubblici all’audiovisivo, trasformeranno autori e produttori di casa nostra in obbedienti esecutori di scelte venute da lontano? O innescheranno una nuova ondata di creatività? In altre parole: il fiume in piena di serie e film destinati al mercato locale (e talvolta internazionale) avranno ancora qualche peso culturale o saranno solo puri, globalizzati, deperibilissimi prodotti di consumo?

Le voci che rimbalzano dai set non sono sempre rassicuranti. C’è chi dice che le case madri decidono tutto, perfino quali obiettivi usare («Normale – ribattono i difensori – hanno standard tecnici da rispettare»). Chi prende le distanze da serie girate senza potersi nemmeno scegliere il cast («Ma è televisione non cinema, pensate che in Rai fosse meglio?»). E chi, lavorando sul comico, lamenta una rigidità che certe scene proibisce addirittura di immaginarle («Loro vogliono cast multirazziali, noi personaggi multirazzisti, se no che satira è?»). Anche se in nome di una dialettica nata col cinema e cresciuta con la televisione, finisce che delle scene più controverse magari si girano due versioni: una come da copione, una ripulita e corretta, come piace alla piattaforma.

I problemi però sono anche altri. Dietro la bolla manca un’ambizione complessiva, una cultura reale che ispiri e sostenga il boom in corso. Troppi titoli nascono come semplici prodotti realizzati per occupare spazi, sfruttando incentivi economici esistenti solo in Europa. «Temo che le piattaforme abbiano in odio i creativi, autori o produttori che siano», azzarda un importante regista che ha attraversato molte stagioni di cinema e tv. «Tolti pochi grandi nomi che servono a vendere abbonamenti e vincere Oscar, vogliono solo esecutori. Così però demotivano i nostri produttori, errore fatale perché il nostro miglior cinema lo hanno sempre fatto loro, i produttori».

Ragionamento confermato anche in termini statistici da Andrea Marzulli, direttore della sezione Cinema della Siae: «La curva del prodotto locale è sempre in calo, dall’avvento delle tv commerciali e poi della pay tv fino allo streaming, sia per numero di opere prodotte che per quote di mercato e peso del prodotto locale nell’offerta complessiva. La percentuale di contenuto italiano presente oggi sulle grandi piattaforme è irrisoria». E se fra i produttori sono in pochi ad aver tuonato contro l’ingresso delle piattaforme in Anica, Associazione Industrie Cinematografiche, c’è chi chiede norme «che impediscano di assegnare il 90 per cento dei contributi statali a gruppi stranieri che non pagano nemmeno le tasse in Italia, e il 10 per cento agli indipendenti». Anche perché il danno non è solo economico.

Lo dimostrano scelte non sempre coraggiose, come trasformare in serie grandi successi editoriali e titoli mitici. Ma se a estendere e aggiornare “Le fate ignoranti” (Disney) ha pensato il gruppo originario, Ferzan Ozpetek e Gianni Romoli con Tilde Corsi in produzione, cosa verrà fuori dalla serie Netflix ispirata al “Gattopardo” scritta e diretta da americani? E non è tutto. «Nessuno ha mai pensato di serializzare “La casta” di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che uscì con pari successo nello stesso anno dello spremutissimo “Gomorra” di Saviano», nota uno sceneggiatore blasonato. «Lo diceva già “Boris”, il film: “La casta” non si può sceneggiare. Non è vero, si potrebbe benissimo. Solo che è un argomento tabù, e in questo fra Rai e piattaforme non vedo differenze. Peccato perché resto convinto che le serie siano la prosecuzione del cinema con altri mezzi, basta pensare a cosa ha fatto proprio Netflix in Turchia con la bellissima “Ethos”. Qui da noi però ancora non succede e c’è da chiedersi perché».

Certo è difficile immaginare che colossi quotati in Borsa come le grandi piattaforme, sensibili a ogni minima fluttuazione, possano ritrovare la spinta e il coraggio del cinema quando si reggeva sul mercato delle sale. La nostalgia però non è una buona consigliera. «Ricordiamoci che le piattaforme, anche quando fanno film, sono televisione e non cinema», ammonisce Andrea De Sica, creatore di “Baby”, tre stagioni e un successo internazionale che ha sorpreso perfino Netflix. «Gli estremismi sono provinciali. Quando le OTT sono sbarcate in Italia tutti sono andati all’arrembaggio, poi hanno scoperto che hanno logiche industriali, non da cinema indipendente. Ma la tv ha sempre controllato i contenuti più del cinema, anche Lynch per fare “Twin Peaks” doveva passare sotto le forche caudine. Il problema è capire se il tuo progetto si addice alle piattaforme e viceversa. Ma il dialogo è indispensabile».

Prosegue l’ultimo De Sica: «Quando ho fatto “Baby” avevo 35 anni e venivo da un film piaciuto ai critici che era uscito d’estate facendo due lire, “I figli della notte”. È bastato questo a farmi affidare una serie internazionale, in Italia non sarebbe mai successo. Ma ho capito che se il film è del regista, la serie è del gruppo: gli sceneggiatori, i produttori, gli altri registi, Anna Negri, Letizia Lamartire. E il broadcaster ha l’ultima parola, come alla Rai. Abbiamo discusso e anche litigato ma è stato un processo di crescita. Io avevo una visione più scioccante del mondo delle baby prostitute. Poi ho capito che il pubblico va preso per mano e portato dentro un certo sentimento poco alla volta. Il final cut, cioè l’edizione definitiva, resta a loro, in tv è sempre così. In compenso abbiamo lanciato un cast tutto nuovo».

Su questo le tv italiane sono sicuramente più caute. Ma fiuto e rapidità delle piattaforme non si fermano ai più giovani. Un talento come Renato De Maria, classe 1958, regista di film come “Paz!” (su Andrea Pazienza), “La prima linea”, “La vita oscena”, è rinato grazie al successo mondiale di un action adrenalinico con Riccardo Scamarcio, “Lo spietato”, mai uscito in sala causa pandemia. Comprato da Netflix e visto in 190 paesi, ha permesso al regista di proporre “Rapiniamo il Duce”, spettacolare thriller in costume «lontanamente ispirato alla figura del Bandito dell’Isola che in “Italian Gangsters” avevo accostato in forma documentaria», racconta De Maria, ora al mix del suo film «più ambizioso e costoso». Con Pietro Castellitto capo di un gruppo di sbandati che sopravvive facendo borsa nera e progetta di impadronirsi del tesoro di Mussolini, nascosto nel capoluogo lombardo in attesa che il duce fugga in Svizzera.

«La postproduzione è laboriosa, siamo in una Milano bombardata tutta ricostruita al computer». Laboriosa e costosa: il budget di “Rapiniamo Mussolini”, ovviamente segreto, le piattaforme non comunicano mai i dati, supera i 10 milioni, molto per l’Italia. Nel cast figurano nomi come Filippo Timi, Isabella Ferrari, Tommaso Ragno, Matilda De Angelis, Maccio Capatonda. Sui metodi di Netflix comunque De Maria, che non è certo uno accomodante, non ha nulla da ridire.

«C’è un reparto per ogni momento della lavorazione, devi convincerli di ogni scelta, ma è molto stimolante. Non mi hanno mai scavalcato, anzi ti spingono a pensare in grande. Certo non regalano niente, bisogna visualizzare tutto prima con cura. Ma il film è totalmente mio. A fine montaggio mi hanno dato un’altra settimana sul set per girare nuove scene preziose. Con gli italiani te lo sogni. Il loro stile di lavoro è contrario alla nostra tradizione… ma quale tradizione? Ne abbiamo avute tante. Io mi rifaccio al cinema di genere anni Settanta, quello di Sergio Leone e Fernando Di Leo. Dobbiamo preoccuparci per la nostra cultura? Forse, ma non ci sono solo loro sul mercato. E non dicano che l’algoritmo impone una rapina nei primi cinque minuti. Da quando lavoro mi sento dire metti tutto nei primi 10 minuti, se no il pubblico ti molla! Il primo a dirmelo fu Angelo Guglielmi a Raitre».

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