CRONACA E ATTUALITÀITALIA

IL RICORDO DI DON PEPPE DIANA DOPO 30 ANNI

“Per amore del mio popolo non tacerò”

Recitava così il documento redatto nel Natale del 1991 da un gruppo di preti della forania di Casal di Principe che si schierarono apertamente contro la camorra. Tra gli autori di quella lettera c’era don Giuseppe Diana.

Don Giuseppe Diana veniva ucciso nella propria parrocchia di primo mattino, mentre si preparava a dire messa  il 19 marzo 1994 , nel giorno del suo onomastico, un prete ucciso nella sua Chiesa, cosa mai accaduta prima in Italia.

Pochi mesi prima veniva ucciso a Palermo nel quartiere Brancaccio un altro simbolo della lotta alla malavita, don Pino Puglisi.

In entrambi i casi si provò a denigrare i due ecclesiastici con insinuazioni di pedofilia, collaborazione con camorra e mafia, bugie e depistaggi.

Don Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe nel 1958, entra giovanissimo in seminario (1968) e continua la formazione teologica a Napoli, laureandosi in Teologia biblica prima e in Filosofia poi. 

Ordinato sacerdote nel marzo del 1982, dal 19 settembre 1989 era stato incaricato delle funzioni di parroco nella parrocchia di San Nicola di Bari, nella sua città natia, a cui si aggiungeva l’insegnamento della religione cattolica presso l’Istituto tecnico industriale statale Alessandro Volta e l’Istituto professionale alberghiero di Aversa. Don Giuseppe (o meglio “don Peppe”, come tutti lo chiamavano in paese) era un sacerdote sui generis: non indossava la tonaca, ma soltanto il collarino, a volte fumava il sigaro.

Negli anni ’80 l’area del casertano dove don Peppe viveva ed esercitava il suo ministero, era sotto il controllo del clan dei Casalesi, fondato da Antonio Bardellino, che controllava traffici illeciti grazie anche ad affiliati che si erano infiltrati in enti locali.

Gli uomini del clan controllavano non solo i traffici illeciti, ma si erano anche infiltrati nella società civile e negli enti locali. L’uomo che veniva ritenuto il fondatore del clan, Antonio Bardellino, era stato il primo a concepire l’organizzazione criminale come un’impresa, che provvedeva ad esportare cocaina in tutto il mondo e poi a “ripulire” gli utili rinvenienti da quel traffico in attività legali.

Si sarebbero poi imposti alla guida del clan personaggi come Francesco SchiavoneFrancesco Bidognetti e Vincenzo De Falco: un triumvirato senza scrupoli. A rompere gli equilibri fra i vari esponenti della malavita e a porre così fine alla pax camorristica sopravveniva il cosiddetto “blitz di Santa Lucia”: la notte del 13 dicembre del 1990 i carabinieri interruppero un summit di camorra che si stava tenendo nella casa di un assessore del Comune di Casal di Principe, Gaetano Corvino. Seguì un conflitto a fuoco fra camorristi e forze dell’ordine ed alla fine Francesco Schiavone venne arrestato.

Subito si diffuse la voce che le forze dell’ordine avessero ricevuto la “soffiata” sulla riunione di camorristi da Vincenzo De Falco, soprannominato poi “o fuggiasco”, in quanto fu l’unico a non parteciparvi.

E proprio quel summit interrotto segnava l’inizio della guerra per il controllo del clan dei Casalesi e di una vera e propria mattanza in tutta la provincia di Caserta, in particolare nella zona aversana. Don Peppe si trovò così ad operare nel pieno di quella che può essere definita un’autentica guerra civile: a Casal di Principe negli anni novanta si registrò il numero di omicidi più alto di tutta Europa.

La personale missione di don Peppe contro la criminalità organizzata conobbe un punto di svolta a seguito di un tragico accadimento: una sparatoria tra bande rivali provocò la morte di una ragazza, vittima casuale di una violenza sistematica, che si manifestava con episodi incontrollabili.

Prima di quel tragico evento, l’azione pastorale del parroco si era concretizzata nell’utilizzare il sermone domenicale come spazio in cui discutere di ciò che stava accadendo in paese. Non solo. Don Peppe si era reso presto conto che i sacramenti, in particolare la cresima, potevano essere un modo per legare un giovane incensurato ad un affiliato al clan: decise quindi di non assecondare questo meccanismo camorristico, rifiutandosi di officiare il rito.

L’iniziativa che gli sarebbe costata la vita sarebbe stata però la stesura di uno scritto, Per amore del mio popolo, diffuso in tutte le chiese del paese. Questo documento sarebbe diventato un manifesto dell’impegno contro il sistema criminale: il testamento spirituale di don Peppe, in cui per la prima volta sarebbe stata denunciata, dal pulpito e nell’attività pastorale, l’organizzazione criminale.

Chi è don Peppino? Sono io

Una domanda secca e una risposta diretta si rivelarono il preludio della fine. Don Diana venne colpito da cinque colpi di pistola la mattina del 19 marzo 1994 nella sua sacrestia e morì all’istante. In un primo momento il movente del delitto apparve misterioso, ma la matrice camorristica era certa. Tuttavia, fin da subito ci fu il tentativo di depistare le indagini e di infangare la figura di don Diana, accusandolo di essere frequentatore di prostitute, pedofilo e custode di armi per conto della camorra.

In particolare, il Corriere di Caserta, pubblicò in prima pagina un articolo dal titolo Don Diana era un camorrista e, dopo pochi giorni, Don Diana a letto con due donne, descrivendolo quindi non come vittima della camorra, bensì come appartenente ai clan.

A seguito delle indagini, emerse che la condanna a morte era stata decisa in Spagna dal fratello di Vincenzo De Falco, Nunzio, in quel momento esponente del clan perdente: costui voleva sottolineare di essere lui l’erede di Bardellino, il detentore della leadership.

Il clan De Falco inoltre sapeva che sacrificando una figura simbolo, come quella di un sacerdote, il territorio sarebbe stato militarizzato, mettendo così in evidenza la debolezza della fazione camorristica vincente.

L’esecutore materiale dell’omicidio venne individuato in Giuseppe Quadrano, il quale divenne poi collaboratore di giustizia.

“ Ai preti chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa”

Il messaggio di don Peppe non si è spento con lui. La sua eredità, morale e spirituale, a partire dal suo sguardo sulle cose, è sintetizzata così, attraverso un atto di coraggio perpetuo.