CRONACA E ATTUALITÀESTERO

Svizzero condannato per aver detto che gli scheletri non sono trans

Emanuel Brünisholz finirà in carcere per aver ricordato che le ossa possono essere maschili o femminili. Un giudice, pur di punirlo, ha trasformato “transgender” in un orientamento sessuale. Così la biologia è diventata un reato

In Svizzera si può finire in carcere per aver detto che gli scheletri non sono transgender. È successo a Emanuel Brünisholz, riparatore di strumenti a fiato di Burgdorf, nel Canton Berna, condannato per “incitamento all’odio” dopo un commento su Facebook nel 2002. Nel quale scrisse, con una franchezza da artigiano e un evidente eccesso di fiducia nel buon senso, che «se fra duecento anni scaverete le tombe delle persone LGBTQI, troverete solo uomini e donne in base ai loro scheletri. Tutto il resto è una malattia mentale promossa dai programmi scolastici». Un’iperbole, una battutaccia, una polemica? Per la giustizia elvetica un reato.

Come racconta Andrea Seaman su Spiked, Brünisholz è stato convocato dalla polizia nell’agosto 2023, interrogato sulle “intenzioni” del suo commento, quindi accusato dal pubblico ministero di aver violato l’articolo del Codice penale che punisce l’odio verso le persone “in ragione del loro orientamento sessuale”. Multa di 500 franchi, più 600 di spese processuali. L’uomo ha fatto ricorso. Respinto. E, rifiutandosi di pagare, finirà ora in prigione per 10 giorni. Non per un’aggressione, non per un insulto personale, ma per aver detto che il sesso si legge nelle ossa. Cioè per aver ricordato una cosa che i manuali di anatomia insegnano da secoli: che lo scheletro umano è sessualmente dimorfico, e che nessuna percezione soggettiva può modificare la forma del bacino. Che c’entra l’orientamento sessuale?

Per il giudice “trans” è un orientamento sessuale

Il cuore del caso sta nella sentenza, un piccolo monumento al linguaggio burocratico intriso di ideologia. Nel testo il giudice scrive: «LGBTQI significa lesbica, gay, bisessuale, transgender, queer e intersessuale e denota quindi diversi orientamenti sessuali. Si tratta di un gruppo di persone con orientamenti sessuali specifici». Fine della biologia, inizio della fantasia giuridica. In un solo colpo, “transgender”, “queer” (identità auto-definite) e “intersessuale” (condizione distinta) diventano “orientamenti sessuali”, benché non lo siano nemmeno secondo i manuali di sociologia. È una capriola linguistica necessaria per incastrare Brünisholz: la legge svizzera tutela l’orientamento, non l’identità di genere. Ma se si ridefiniscono le parole, allora tutto torna.

Da lì in poi la logica può andare in vacanza. Il giudice scrive che Brünisholz «sostiene pertanto che l’orientamento sessuale secondo la comunità LGBTQI non esiste, ma è una malattia mentale. Egli nega quindi alle persone che appartengono a questo gruppo il loro diritto umano all’esistenza». Falso: Brünisholz critica l’idea di identità di genere, non attacca l’omosessualità o la bisessualità e tantomeno nega l’esistenza di nessuno. Ma per la corte è sufficiente: l’uomo è colpevole, e la sua pena sarà «una lezione per fargli comprendere la gravità della questione».

Una lezione, letteralmente. Non una punizione proporzionata a un danno, ma un messaggio pedagogico, un esempio per gli altri. È l’uso del diritto penale come strumento di rieducazione morale.