I difetti del cemento romano erano una tecnica

Per secoli abbiamo osservato le imponenti strutture romane, notando quei piccoli grumi bianchi nel loro cemento. Li abbiamo sempre liquidati come un errore, il segno di una miscela fatta male, di poca cura.
Eppure, c’era qualcosa che non tornava. Come potevano opere così ‘imperfette’ resistere per duemila anni a guerre, terremoti e intemperie, mentre tante costruzioni moderne si sgretolano in pochi decenni? La domanda è rimasta senza una vera risposta per molto tempo.
Oggi finalmente conosciamo il segreto, e la risposta è un colpo di genio che ribalta tutto ciò che pensavamo di sapere. Quelle imperfezioni non erano un punto debole. Erano la loro arma segreta.
Quei grumi di calce non erano affatto errori, ma un kit di riparazione integrato. I Romani, con una tecnica chiamata ‘hot mixing’, li inserivano di proposito. Quando una crepa si formava e l’acqua vi penetrava, questi grumi si attivavano, creando una reazione chimica che risaldava la frattura dall’interno, come se la struttura guarisse da sola una ferita.
In pratica, più la struttura veniva danneggiata dagli agenti atmosferici, più aveva modo di autoripararsi e rafforzarsi. Un’idea che oggi chiamiamo ‘materiale intelligente’, ma che loro padroneggiavano già duemila anni fa. Non un difetto, ma la massima espressione dell’ingegneria.